Articolo di Gianluigi Repetto
Tempo fa lessi un decalogo in cui erano elencati una serie di “diritti” del lettore, li trovai divertenti e corretti. Uno in particolare mi colpì: il diritto di abbandonare un libro che non piace. Non credo che un romanzo possa migliorare se già dall’inizio non mi piace.
Già molto tempo prima di sapere di essere depositario di questo diritto io lo avevo applicato e mi ha fatto piacere sapere che ho sempre agito entro i limiti della “legge”.
Se un libro non piace, se annoia, se è al di sotto delle aspettative, se non si capisce cosa vuole dire il lettore ha il diritto (a volte il dovere) di abbandonarne la lettura. Io aggiungo che in alcuni casi è anche nostro diritto fare pubblicità negativa (soprattutto quando detto libro è pompato dai media), in fin dei conti è un prodotto che abbiamo acquistato e pagato e, come nel caso di un elettrodomestico difettoso, possiamo e dobbiamo esigere un rimborso. Vorrei stilare un breve elenco dei libri di cui ho abbandonato la lettura perché non mi sembra corretto né etico scriverne una recensione, purtroppo di molti ne ho dimenticato il titolo e l’autore però mi ricordo il motivo della rinuncia.
Tra i libri di cui ho obliato il titolo il caso più clamoroso è un romanzo di un giornalista operante in Piemonte che incontrai durante un evento da me organizzato e presentato; all’inizio della serata si avvicinò un signore distinto che mi chiese il permesso di presentare il romanzo di un suo caro amico, lì presente, eminente professionista della penna. Io naturalmente acconsentii e come ringraziamento me ne regalò una copia. Il giorno dopo mi accinsi a leggere mi trovai di fronte un libro autopubblicato (probabilmente presso una tipografia) in cui tra segni di neopunteggiatura, in cui spiccavano numerosi due punti, non “:” ma “..” di cui non ho capito l’interpretazione, vi era dipanata una storia incoerente e vaneggiante su un bosco popolato da spiriti. C’erano degli evidenti spostamenti eseguiti con maldestri copia-incolla che alteravano la disposizione logica delle frasi e di interi paragrafi conditi da strafalcioni sintattici. Ne lessi una trentina di pagine perché, sinceramente, l’idea del bosco infestato mi piaceva ma lo dovetti abbandonare perché non si riusciva veramente a capirne il senso.
Un altro giornalista mi regalò il suo libro, in questo caso era un giornalista sportivo veneto che, giunto all’età della saggezza, pensò di lasciare ai posteri la summa dei suoi pensieri, infatti nel titolo mi ricordo che era presente questa parola (forse “pensieri in libertà” o una cosa simile). Generalmente mi piacciono i racconti personali di una vita ma in questo caso erano di un livello di noia e di banalità che rischiavano di farmi cadere in coma profondo, l’unica cosa non negativa era l’italiano formalmente corretto. In questo caso non superai il secondo racconto.
Tra i libri famosi a cui riconosco un certo valore, ma che non riesco proprio a leggere spicca Il piccolo principe. Non sapete quante volte l’ho preso in mano con la più seria intenzione di arrivare alla fine ma, purtroppo, non ce l’ho mai fatta. È più forte di me ma ad un certo punto comincio a divagare e puntualmente lo lascio da parte. Non lo capisco, non mi prende, mi annoia, non ci trovo niente di bello o poetico (non sono mai riuscito a capire la poesia), è troppo irreale. Non ce la faccio proprio.
Abbandonai dopo circa un terzo del romanzo un falso thriller falsamente storico sui templari che era un guazzabuglio di errori storici, di cavalieri machissimi ma sensibili, di donne che erano costantemente pervase da calore delle loro parti più intime pronte a provare piaceri estatici.
Molti altri erano saggi privi di basi scientifiche e di basso tenore culturale, libri sulla spiritualità adatti a frequentatori di maghi e fattucchiere; alcune biografie (spunta tra tutte I miei primi quarant’anni) i cui fatti riportati erano talmente lontani dai miei interessi che neanche la noia da ombrellone o da barbiere mi avrebbe aiutato nella lettura.
Alcuni erano bestsellers osannati dal pubblico e dalla critica, mi ricordo Va dove ti porta il cuore, in cui il continuo lamento di una instabile sciocca mi portò allo stremo prima della metà del libro, e Tre metri sopra il cielo, che chiusi alla fine della prima pagina (penso che sia un qualche tipo di record).
Ultimamente ho abbandonato al suo destino “Si chiama Andrea” anche se mi è stato assicurato che alla fine del libro si riesce finalmente a capire la storia, io non avevo nessuna voglia di soffrire per tutto il percorso e godere solamente delle ultime pagine lette.
Secondo me la lettura serve per divertire, deve essere un piacere e non conta se dà soddisfazione leggere thriller, distopici, romance, saggi, saghe famigliari o istruzioni per l’uso l’importante è che piaccia a chi legge. E non sono neanche del tutto sicuro che bisogna leggere per aumentare la propria cultura, saggezza o consapevolezza, mi dà l’idea di barboso e la brutta sensazione di un qualcosa di elitario, che serva soprattutto per sentirsi superiori a quelli che non amano leggere.
Con gli anni ho capito che è meglio dubitare dei vincitori di “Streghe” e “Campielli”, di titoli molto pompati, di scrittori molto giovani o di quelli che al tramonto di una qualche professione che gli ha portato una grossa visibilità mediatica decidono di donare al mondo la loro storia. Mi sono avvalso per tutta la vita, e continuerò a farlo, del diritto di abbandonare un libro perché se non prende vuol dire che non mi piace, perché non ho niente da dimostrare a nessuno, perché non ho timore reverenziale nei confronti di nessuno, perché un libro è un piacere e se non è bello che piacere c’è, perché non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace e, soprattutto, la vita è troppo tragicamente breve.